QUANDO SI PROFILA UN AD-DIO
UNA DOVEROSA PREMESSA: il mistero del dolore è racchiuso nella coscienza soggettiva di ciascuno. E’ mistero perché ognuno di noi lo vive nel segreto della sua interiorità e, per questo, ci si deve avvicinare e se ne deve parlare con prudenza, soprattutto con profondo rispetto. Le parole che seguiranno sono riflessioni che non intendono ”spiegare” né tantomeno hanno la pretesa di acquietare i cuori dal dolore sperimentato. E’ la consegna di alcune convinzioni, anzi, di alcuni sentieri che sono ”in corso d’opera” anche per colui che scrive.
In queste settimane molte famiglie hanno pianto la morte dei loro cari. Non importa se “per” o “con” il coronavirus. A mio avviso, dettagli. La realtà è che non ci sono più. E, come se non bastasse il dolore del distacco, non ci è stata data neppure la possibilità di celebrarlo cristianamente, quello che comunemente è chiamato “addio”.
Già. Addio: una parola che indica separazione, commiato, lontananza definitiva. Siamo così attratti da questo significato che sospendiamo per un istante la sua origine: “ad-Dio”. La morte è una raccomandazione, è una consegna a Dio.
Mi è tornato alla mente il testamento spirituale di padre Christian de Cherghé, Priore del monastero di Tibhirine (dal titolo “Quando si profila un ad-Dio”), quando la situazione in Algeria faceva presagire la sua morte e quella dei suoi confratelli. In quelle stupende parole dal cuore, emerge la consapevolezza che la vita è un percorso che inizia e termina in Dio. E’ un atto di fede ma che ha le sue radici nell’esperienza stessa della nostra finitudine, del nostro limite, della nostra fragilità.
Perché proprio a me
Una prima dolorosa fatica che sperimentiamo, a dire il vero non solo oggi, è la scoperta che questa malattia e la morte ad essa collegata non accadono soltanto ”agli altri”. L’esperienza personale del morire è comune a tutti, è dolorosa perché segna il passo a una relazione, la sospende definitivamente (la sospende, non la elimina, ma lo chiariremo dopo), ancor più in questo contesto dove siamo continuamente bersagliati da numeri statistici, nei confronti dei quali siamo costretti a misurarci, che lo vogliamo oppure no.
La domanda ”perchè proprio a me?” manifesta la necessità di un percorso di consapevolezza da attivare nella vita quotidiana, non solo nelle emergenze, bensì in ogni tempo, in ogni circostanza, in ogni evento. E’ il passaggio da ciò che viene considerato come ”eventualmente possibile” a ciò che invece ”è accaduto a me”. Ci sono momenti in cui, o riesci a dire «a me», oppure dovrai fare i conti anche con la sofferta percezione che, tutto quanto è accaduto, in realtà è come se non fosse accaduto. Nella parola che Gesù consegna al ladro in croce, il miracolo non è nella citazione del ”Paradiso” bensì nella sottolineatura temporale: ”oggi”. In ogni mio ”adesso”, cioè nel ”mio” presente, è racchiusa la speranza di una ”raccomandazione” a Dio. Anche in questo ”oggi” della morte.
Da soli
Gesù nella solitudine del Getsemani, con i suoi amici che dormono invece che vegliare con lui, ”cominciò a provare tristezza e angoscia” (Mt 26,37). La paura di morire ”da soli” è un segno indelebile di questa emergenza, l’esperienza che ci obbliga a prendere atto di quanto non abbiamo mai osato immaginare. Siamo stretti da un senso di impotenza e di angoscia nella separazione dalle persone care, nell’immaginarle da sole e di non poterle incontrare, vedere, contattare. Tutto questo diventa ancor più straziante nel non poter onorare il corpo dei nostri cari defunti e celebrare insieme a parenti e amici i riti della fede con la comunità. Un distacco nel distacco.
La solitudine dice la nostra vulnerabilità ma al tempo stesso dice il bisogno di compagnia anche e soprattutto nel momento del ”passaggio”. Di fronte alla evidente impotenza nei confronti di una vita che si spegne, amplificata dalla solitudine che ci viene imposta, possiamo fare memoria dei nostri cari che sono ”in noi”, di ciò che ci hanno consegnato nella vita condivisa, degli affetti profondamente vissuti. E’ in questo particolare ”memoriale” che li possiamo ritrovare.
Dicevo che la morte sospende ogni relazione ”temporaneamente”, dove temporaneo non è la durata bensì la visibilità. La nostra componente biologica si corrompe e si trasforma, ma la nostra componente spirituale tanto invisibile quanto concreta, è preludio di una eternità che ci è promessa. Per questo Gesù, in solitudine nel momento della ”tristezza e angoscia”, può pregare ”Padre, nelle tue mani affido il mio spirito, a te io mi affido”.
Raccontare e ricordare
C’è una curiosità benevola in noi: al tocco del ”campanone”, che in molte chiese segna il momento del trapasso, ci viene spontaneo chiedere in giro ”Chi è morto?”. C’è una seconda domanda che soggiace in noi, a dire il vero meno spontanea e a mio parere un po’ meno benevola, che riguarda le cause del trapasso: ”Ma… di che cosa è morto?”. All’inizio il dialogo si ferma sulle circostanze della morte. E’ un inizio. Per rompere quello scrigno interiore riservatissimo, a prova di intercettazione, che è fatto di volti amati, esperienze condivise, tempo trascorso insieme. Solo quando la curiosità benevola lascia il passo all’ascolto, garantito da una presenza silenziosa accanto a chi soffre, il racconto delle circostanze si trasforma in ricordo. Anche in questo caso c’è un inizio che raccoglie, come in un album fotografico, tutte le immagini care di momenti vissuti. Solo dopo questo percorso si raggiunge il centro: il cuore di una storia, di un legame, di un cammino condiviso, di un’amicizia, di affetti profondi: “Chi era per me? Non sarei stato\a quello che sono senza questo legame! Quali sono i primi ricordi che vengono? Quale la storia del nostro legame? Quali sono le parole che avrei voluto dire e non ho potuto?”
La morte è sempre una perdita dolorosa ma c’è anche qualcosa di nuovo che affiora perché la relazione con le persone amate diventa più interiore e più spirituale. Il legame viene visibilmente a mancare ma non viene distrutto; si trasforma in qualcosa di più essenziale e intimo.
Nell’accoglienza rispettosamente discreta del dolore, sarà da testimoniare come credenti il senso della presenza del Signore anche dentro l’oscurità: «Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me» (Salmo 23). Sarà da sostenere la certezza che il Signore custodisce nel pellegrinaggio della vita «il Signore ti proteggerà da ogni male…il Signore veglierà su di te quando esci e quando entri» (Salmo 121). Sarà da coltivare la confidenza che «nelle tue mani è la mia vita» e «non abbandonerai la mia vita nel sepolcro» (Salmo 15)
don Virginio
Pubblicato il 27 Aprile 2020