DA DOVE VIENE LA PACE
Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così decide di andare da lui e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: e se il mio vicino non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed egli ce l’ha con me. E perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito.
E perché lui no? Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così rovina l’esistenza agli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno di lui, solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questo abbia il tempo di dire “Buon giorno”, gli grida: “Si tenga pure il suo martello, villano!”.
(PAUL WATZLAWICK, Istruzioni per rendersi infelici, Milano, Feltrinelli 1984)
Tutto inizia con un bisogno
La “storia del martello” mi sembra un approccio interessante per parlare delle pace. La situazione ucraina ci tiene col fiato sospeso… fino a pochi mesi fa i discorsi che segnavano il passo riguardavano la pandemia. Non c’era luogo, occasione, circostanza nel quale all’incipit “Ciao, come va?”, il discorso si connetteva automaticamente su mascherine, igienizzanti, chiusure, complotti statali, privazioni di libertà… Ora, seppur con minor enfasi (forse perchè, per quanto “vicini”, non ci riguardano sulla nostra pelle), i discorsi parlano della guerra in Ucraina, della situazione di sofferenza, per poi prestare il fianco a giudizi sull’uno o sull’altro leader di grandi potenze, sul ruolo degli Stati e della diplomazia… e chi più ne ha più ne metta.
Dimenticanze…
Quando siamo “toccati nel vivo” ciò che accade ci interpella, ci preoccupa, fa notizia, “vende” prodotti (i media, i social e… la pubblicità della crema antirughe durante il “diario della guerra”… sic!). Quando invece le cose che accadono sono lontane migliaia di chilometri, non solo non ci riguardano, ma – drammaticamente – è come se non esistessero… «Sono più di 30 le guerre in atto nel mondo, ma molte di queste non fanno notizia, come non esistessero. Eppure ci sono uomini, donne, bambini che di guerra muoiono, che dalle guerre fuggono» (http://www.caritasroma.it/pace-e-mondialita/le-guerre-dimenticate/)
Sud Sudan, Congo, Uganda, Rep. Centrafricana… da ormai diversi anni decine di migliaia sono gli sfollati, i profughi, i poveri e i morti. Ma non è questo l’intento della riflessione, anche perchè, vicine o lontane, più o meno, la nostra vita continua “come se non fosse” e, comunque, ci scopriamo davvero impotenti di fronte a questi drammi dell’umanità. Certo, ci sono mobilitazioni, sit-in di pace, proteste, indignazioni (a volte paradossali, perchè manifestazioni per la pace si trasformano in violenza… sic!) che ci servono per “sensibilizzare” ad una cultura di pace ma…
Qual è la realtà?
C’è sempre quel benedetto martello e quell’emerito “villano” che non ce lo vuole prestare per piantare il nostro chiodo. Perchè ce l’ha con noi… E così, come per incanto, scopriamo che nel nostro piccolo mondo antico, le relazioni sono tutt’altro che pacifiche, sono spesso condizionate dal nostro pensiero sulla realtà e sugli altri, così incisivo e “violento” che arriviamo persino a produrre ciò che non esiste, a tal punto da renderlo reale e reagire di conseguenza (come il “villano” della storia). Come facciamo anche solo a parlare di pace – praticarla è un’impresa – se non sappiamo purificare cuore e intenzioni?
Percorsi di pace
Come facciamo a indignarci della guerra (ma solo quella vicina a noi… le altre, mah…), consapevoli che siamo impotenti, se siamo incapaci di utilizzare il dialogo quando non siamo d’accordo con una persona, preferendo i giudizi, le condanne, i voltafaccia, per non parlare degli insulti e della violenza? Ieri mattina (18 marzo), più di 500 bambini e ragazzi si sono radunati nella nostra piazza con disegni, immagini e striscioni a favore della pace. Con loro insegnanti, genitori, autorità religiose e pubbliche, hanno fatto corona a questo importante e significativo momento. Sapranno dare valore a questa testimonianza nelle pieghe della vita quotidiana, in ogni relazioni e in ogni circostanza, a scuola, in famiglia, in oratorio, per la strada…? Oppure, quando incontreranno chi è “diverso”, chi non la pensa come loro, chi non è povero e profugo ma ci vive accanto, preferiranno distanziarsi o – peggio – sceglieranno di “combattere” per far valere le proprie ragioni, senza percorrere strade “diplomatiche” di dialogo, confronto, e che Dio lo voglia, di vera conversione del cuore?
Don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta (1935 – 1993), ci istruisce come sempre con profonda semplicità e concretezza. Che queste sue parole ci aiutino ad essere uomini e donne di pace nella nostra piccola, semplice, quotidiana realtà di tutti i giorni. Non faremo la differenza nello scacchiere orientale, non avremo l’onore di aver fermato la guerra, non avremo neppure accolto nessun profugo (magari l’avremmo voluto ma non ce l’hanno concesso)… insomma: non faremo “notizia” ma avremo certamente contribuito a creare un’autentica “cultura di pace”. Ed è solo questo che Dio ci chiede…
A dire il vero non siamo molto abituati a legare il termine pace a concetti dinamici. Raramente sentiamo dire: “Quell’uomo si affatica in pace”, “lotta in pace”, “strappa la vita coi denti in pace”… Più consuete, nel nostro linguaggio, sono invece le espressioni: “Sta seduto in pace”, “sta leggendo in pace”, “medita in pace” e, ovviamente, “riposa in pace”. La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera che lo zaino del viandante. Più il comfort del salotto che i pericoli della strada. Più il caminetto che l’officina brulicante di problemi. Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli. Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato. Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.
Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma una conquista. Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo. La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio. Rifiuta la tentazione del godimento. Non tollera atteggiamenti sedentari. Non annulla la conflittualità. Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”. Sì, la pace prima che traguardo, è cammino. E, per giunta, cammino in salita. Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti. E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte. Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai – su questa terra s’intende – pienamente raggiunta.
Pubblicato il 19 Marzo 2022